Catene di fornitura: gli strumenti internazionali in essere (Appendice del mio nuovo libro del 2021)

Quanto segue è connesso al mio nuovo libro L’Unione europea Origini Presente Prospettive Future in fase di pubblicazione con Simple Editore (2021) .

Avrebbe dovuto essere una sua Appendice, poi, ho preferito renderlo leggibile qui per evitare un volume troppo voluminoso.

CATENE DI FORNITURA: GLI STRUMENTI INTERNAZIONALI IN ESSERE  di Silvana Paruolo

Qui di seguito in sintesi una breve rassegna dei principali strumenti internazionali che si occupano di catene globali di fornitura.

a. L’ Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite – (obiettivi 9-12-17) – Gli obiettivi 9 (costruire industrie inclusive e sostenibili) e 12 (garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo) si concentrano in modo specifico sulle catene di approvvigionamento mentre l’obiettivo 17 (rafforzare i partenariati per lo sviluppo sostenibile) riguarda la condotta delle imprese;

b. I Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani (2011) sono stati sviluppati dalle Nazioni Unite a partire dal rapporto Protect, Respect and Remedy: a Framework for Business and Human Rights del 2008 del prof. John Ruggie, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle N.U. sul tema dei diritti umani.

Il Framework ha optato per un approccio procedurale, ossia basato sulla predisposizione di tecniche di prevenzione, rispetto a uno più strettamente sostanziale, diretto all’identificazione precisa delle norme internazionali applicabili.  Richiama la Carta Internazionale dei Diritti Umani e le otto Convenzioni fondamentali dell’OIL per identificare un contenuto minimo di diritti largamente riconosciuti dalla comunità internazionale.  Sostiene che la Responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani deve basarsi su due concetti:

  • la sfera d’influenza (concetto già nel Global Compact delle Nazioni Unite dal rapporto rivisto) – intesa come “impatto” delle loro attività sui diritti umani – delimita l’ambito di operatività degli obblighi imprenditoriali
  •  la due diligence (diligenza dovuta) ne specifica il modus. Dopo una valutazione delle implicazioni della loro azione, le imprese devono elaborare una policy aziendale relativa ai diritti umani, integrata in tutti i livelli dell’organizzazione (anche attraverso formazione) e monitorata

Successivamente i Guiding Principles on Business and Human Rights (i Principi Guida) hanno costituito una “piattaforma di azione globale”.    Gli Stati dovrebbero “incoraggiare […] le imprese a comunicare come esse affrontano il loro impatto sui diritti umani”e “fornire loro indicazioni effettive su come rispettare i diritti umani nella propria attività”.   Le imprese sono tenute a rispettare i diritti umani riconosciuti a livello internazionale, tra i quali rientrano, come minimo, quelli previsti dalla Carta internazionale dei diritti umani e dalla Dichiarazione dell’OIL del 1998 sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro.  Devono cercare di impedire – o mitigare – un impatto negativo sui diritti umani direttamente correlato alle loro relazioni d’affari (che includono anche quelle con i soggetti facenti parte della catena del valore).   Il grado di responsabilità dell’impresa varia a seconda che essa abbia causato – o contribuito a causare – l’impatto negativo correlato alle attività ivi incluso le omissioni). Le modalità operative di adempimento di queste responsabilità sono molteplici si articolano in tre momenti:

  • la redazione e diffusione (dentro e fuori l’impresa) di una Linea di politica aziendale
  • l’adozione di un processo di Due Diligence 
  • la predisposizione di meccanismi volti a porre rimedio alle violazioni[1].

Ai portatori di interessi (“stakeholders”) è attribuito un ruolo attivo nelle diverse fasi della Due Diligence sia ex ante, sia ex post (per controllare la veridicità di quanto dichiarato).    Circa i rimedi, si riconosce il possibile contributo di iniziative collaborative (quali quelle multistakeholders) purché istituiscano “effettivi meccanismi di reclamo” “(effective grievance mechanisms”).    Il relativo commento ricorda anche le procedure di risoluzione delle controversie previste dagli Accordi quadro globali stipulati da Multinazionali transnazionali e Federazioni sindacali internazionali.   Sulla base di quanto appreso nel corso delle procedure di verifica, le  imprese sono tenute a prendere “i provvedimenti necessari”: porre fine a un impatto negativo, impedire che questo si produca, interrompere quelle concause che non derivano da una sua azione diretta (anche considerando – se non basta l’esercizio della  propria influenza/“leverage” – la possibilità di terminare la relazione a cui è legato l’impatto negativo sui diritti umani, o esponendosi a un fallimento, o rinunciando a un settore essenziale di attività).   Inoltre, le imprese sono messe in guardia circa i rischi reputazionali, economici e legali inerenti alla scelta di continuare a portare avanti rapporti commerciali cui sono connesse conseguenze negative sui diritti umani. Si tornerà sui sindacati più avanti.  

Attualmente è in corso una campagna tesa alla stipulazione di un Trattato internazionale che sancisca alcuni principi vincolanti in materia di Transnational company/corporation.   I promotori dell’iniziativa hanno ottenuto la maggioranza relativa dei voti in seno al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che il 26 giugno 2014 ha approvato la Risoluzione n. 26/9. 

Si è così deciso di “istituire un gruppo di lavoro intergovernativo aperto sulle società transnazionali e altre imprese con riferimento ai diritti umani, il cui mandato è quello di elaborare uno strumento internazionale e giuridicamente vincolante per regolare, nell’ambito della legge internazionale sui diritti umani, le attività delle società transnazionali e delle altre imprese”.  In adempimento del mandato ricevuto, il Gruppo di lavoro ha diffuso una “bozza zero” (“zero draft”) il 16 luglio 2018, di cui è stata presentata una versione rivista esattamente un anno più tardi.  La stretta maggioranza raccolta intorno alla Risoluzione 26/9 dimostra quanto resti controversa la proposta di elaborare uno strumento vincolante.

c. Gli strumenti dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL-ILO-OIT) Da qualche anno, la globalizzazione delle catene globali di fornitura – e l’esigenza di garantire condizioni sicure di lavoro dignitoso lungo l’intera filiera di produzione globale – hanno acquisito un’importanza crescente per l’Agenda del Lavoro Dignitoso dell’OIL.  La Conferenza Internazionale del Lavoro ne ha discusso nella sua 105a sessione nel giugno 2016, anno in cui è stata adottata La Risoluzione del 2016 sul lavoro dignitoso nelle catene globali di approvvigionamento. Ma, nel febbraio 2020 (a causa de Covid-19 – e non solo) si è riusciti a trovare un accordo solo per dire che nel marzo 2021 ci si dovrebbe di nuovo mettere d’accordo su come andare avanti e su quale tipo di questioni. Per l’OIL, i percorsi di responsabilizzazione dell’impresa dovrebbe essere intesa oltre i confini e oltre il velo societario. Nella prospettiva OIL – che prefigura una governance composita e multilivello – gli Stati dovrebbero intensificare i sistemi ispettivi e di controllo (elemento centrale per potere contrastare lo sfruttamento dei lavoratori nelle catene, e nello stesso tempo mettere in luce le cose che non vanno). È una questione delicata perché un’impresa leader di una catena, spesso, non sa neanche chi sono i subfornitori, appaltatori di secondo e terzo grado, e quindi c’è anche difficolta poi a intervenire e sapere cosa succede. Ma bisognerebbe acquisire informazioni in merito.

 Ad oggi, per le catene globali di fornitura/approvvigionamento, i suoi principali strumenti sono questi che seguono.

 –  La Dichiarazione sui diritti e principi fondamentali (1998)Nel 1998, ci fu un gran dibattito, soprattutto a livello sindacale, in cui si chiedeva di portare i diritti fondamentali – per esempio tramite una clausola sociale – nell’OMC.  Ma fu detto che se doveva occupare l’OIL.  Fu quindi varata questa Dichiarazione, molto interessante perché – per la prima volta – fu detto che i principi delle 7 Convenzioni fondamentali dell’OIL (poi diventate 8) che hanno dato vita a questi diritti fondamentali – anche se non ratificate – dovevano valere, erga omnes, per tutti i membri dell’OIL: se c’è volontà politica, si trovano anche i meccanismi attuativi.  Le 8 Convenzioni Oil considerate fondamentali sono: C29 sul lavoro forzato; C87 sulla libertà di associazione sindacale; C98 sul diritto di organizzazione e contrattazione collettiva; C100 sulla parità di retribuzione tra uomo e donna; C105 sull’abolizione del lavoro forzato; C111 sulle discriminazioni; C138 sull’età minima; C182 sulle peggiori forme di lavoro minorile

La risoluzione sul lavoro dignitoso nelle catene globali di approvvigionamento (2016)La Risoluzione richiama una serie di iniziative poste in essere non solo dall’OIL, ma anche dalle Nazioni Unite, dagli Stati, dalle parti sociali (parr. 8-11).

Ma – rispetto i Principi guida delle N.U. – è relativamente scarsa l’attenzione dedicata al ruolo di vigilanza delle Multinazionali.

Agli Stati viene chiesto di  agire –  tra altro –  per  favorire il dialogo sociale; aiutare le imprese a identificare i rischi specifici legati ai settori merceologici e ad attuare processi di Due diligence, rendendo inoltre note le proprie aspettative in proposito; stimolare la trasparenza, anche prevedendo, eventualmente, la pubblicazione di resoconti circa gli esiti delle pratiche di Due diligence; inserire nei Trattati di libero scambio clausole che impediscano di utilizzare la violazione degli standard lavoristici.    Alle parti sociali è attribuito un ruolo di primo piano nella promozione del lavoro dignitoso nelle catene, attraverso il dialogo sociale transfrontaliero.   Molteplici i richiami ai prodotti della contrattazione collettiva transnazionale, e cioè agli Accordi quadro internazionali o globali (espressamente menzionati ai parr. 11, 17 e 23, lett. c).  Le organizzazioni dei lavoratori dovrebbero fornire agli stessi lavoratori assistenza tecnica e informazioni circa i loro diritti e dovrebbero “negoziare con le imprese multinazionali Accordi azionabili, e coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori nel monitoraggio della loro applicazione pratica”.

 Stati e parti sociali sono incoraggiati a dare spazio alle iniziative c.d. multisatkeholder, che, tuttavia, devono affiancare e non sostituire i sistemi di governance pubblica delle catene di fornitura.    Infine, la Conferenza sollecita anche l’OIL nel suo complesso a sviluppare un “programma d’azione” (“program of action”) – secondo le direttive elencate al par. 23 – che includono attività generale dall’Organizzazione (la promozione di ratifica e implementazione di convenzioni e raccomandazioni, la fornitura di Servizi di assistenza tecnica agli Stati, nell’ottica di migliorare la legislazione lavoristica e garantire il rispetto dello Stato di diritto)  e indicazioni più specifiche, dalla cooperazione con altri forum internazionali  (quali le Nazioni Unite, il G7, il G20 e i Punti di contatto nazionali istituiti in attuazione delle Linee Guida dell’OCSE) allo studio e  raccolta di dati  sulle catene del valore, realtà dinamiche, da analizzare caso per caso. 

 In questa prospettiva, al par. 25 si pone in dubbio l’effettiva rispondenza degli attuali standard OIL alle esigenze di promozione del lavoro dignitoso lungo le catene globali di fonitura.  Per tale ragione, si suggerisce di approfondire la questione, convocando, non appena il Consiglio d’Amministrazione lo ritenga opportuno, un incontro tecnico con lo scopo di: “individuare le carenze che producono deficit di lavoro dignitoso nelle catene globali di fornitura; identificare i principali ostacoli al raggiungimento del lavoro dignitoso nelle catene globali di fornitura; valutare quali orientamenti, programmi, misure, iniziative o standard per promuovere il lavoro dignitoso e/o agevolare la riduzione dei deficit di lavoro dignitoso nelle catene globali di fornitura”. 

In conformità alle Conclusioni adottate dalla Conferenza, l’Ufficio Internazionale del Lavoro ha elaborato, nell’arco di pochi mesi, un primo “programma d’azione” (“programme of action”), poi modificato secondo le osservazioni effettuate dal Consiglio d’Amministrazione, nonché completato da una serie di indicazioni operative, che ne specificano contenuto, obiettivi e tempistiche.   Il programma, della durata prevista di cinque anni (2017-2021) è suddiviso in cinque aree d’intervento: 

  • “produzione e divulgazione di informazioni” (knowledge generation and dissemination);
  • capacity building”;
  • “effettiva promozione del lavoro dignitoso nelle catene globali di fornitura” (effective advocacy for decent work in global supply chains);
  • “consulenza sulle politiche [da adottare] e assistenza tecnica” (policy advice and technical assistance)
  •  “collaborazione e coerenza delle politiche” (“partnerships and policy coherence”).

Ma, nel febbraio 2020 (causa Covid-19 e non solo), l’unica cosa su cui è stato raggiunto un Accordo è stato di riparlarne nel marzo 2021.

 La Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale – Collegata alla decolonizzazione e alla richiesta di diritti – da parte di altri paesi – che ne è derivata, la Dichiarazione è stata adottata per la prima volta nel 1977.  Successivamente è poi stata emendata nel 2000, nel 2006 e nel 2017.  Il riferimento alle catene di fornitura rappresenta una novità introdotta con l’ultima revisione del 2017, tenuto conto degli sviluppi intercorsi in ambito OIL […] oltre ai Principi guida su imprese e diritti umani […]”. 

La Dichiarazione è “una guida per imprese multinazionali, governi e organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori in ambiti quali occupazione, formazione, condizioni di vita e di lavoro e relazioni industriali” :  a testimonianza che, perfino presso l’OIL, solo in tempi molto recenti ha cominciato a svilupparsi una certa consapevolezza circa i deficit di lavoro dignitoso che si producono all’interno delle catene di fornitura.  

La principale novità introdotta – nel 2017 – rispetto alle precedenti versioni della Dichiarazione è costituita dall’obbligo di due diligence.  “Le imprese multinazionali dovrebbero sfruttare la propria influenza al fine di incoraggiare i rispettivi partner commerciali affinché prevedano strumenti efficaci che permettano di porre rimedio agli abusi dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale”.  Questi riferimenti all’esercizio della propria influenza e al rispetto dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, del tutto assenti nelle precedenti versioni della Dichiarazione, riecheggiano evidentemente i Principi Guida delle Nazioni.

Ma in questa Dichiarazione non si parla solo di due diligence. Ai fini di realizzare gli obiettivi della Dichiarazione, si dice che tale processo dovrebbe tener conto del ruolo centrale della libertà di associazione e della contrattazione collettiva, nonché delle relazioni industriali e del dialogo sociale come processo continuo.  La Dichiarazione ha mantenuto capitoli dettagliati su tutta la questione relativa al lavoro.   Non parla solo di diritti fondamentali.  Parla anche di orario di lavoro, di salute e sicurezza, e di relazioni industriali.   Nel 2017, si è aggiunta anche la Sicurezza sociale che prima non c’era perché le multinazionali dovevano andare all’estero dove non c’erano Servizi di sicurezza sociale. È una sorta di Codice la cui rilevanza (come per ogni atto di soft law) dipende in larga misura dal suo seguito.  Inoltre Il dialogo è al cuore stesso della Dichiarazione.

Inoltre, la Dichiarazione Tripartita ha anticipato i Principi guida delle N.U. per quanto riguarda il ruolo attribuito agli Stati d’origine delle Multinazionali nella promozione di buone pratiche, anche attraverso una regolamentazione extraterritoriale delle loro attività.  Sollecita in diversi passaggi l’approccio integrato – multilivello – che pure rappresenta una costante dell’attività normativa dell’OIL.  Ma non ha trascurato a tal fine l’importanza del confronto continuo tra Stati d’origine e Stati destinatari degli investimenti delle imprese.  È prevista una promozione regionale della sua applicazione.   L’OIL ha detto all’Unione africana e all’Unione regionale asiatica che bisogna dialogare tra Stati (mantenendo ciascuno la propria giurisdizione).  Gli Stati sono invitati a dialogare fra loro. Così come le imprese e i sindacati.

Per il resto – come già ricordavo – la Dichiarazione è corredata da una serie di previsioni di carattere sostanziale, che individuano gli standard lavoristici a cui le imprese Multinazionali dovrebbero conformarsi nell’ambito delle loro operazioni (principi desunti in larga misura dagli strumenti OIL applicabili alle imprese multinazionali ed elencati nell’Allegato I). È una sorta di Codice (o breviario).   Le norme OIL sono norme universali minime, nel senso che posso esserci anche norme migliori.   Visto che le questioni procedurali erano già state affrontate dai principi guida, il Consiglio d’Amministrazione dell’OIL ha scelti di (continuare a) concentrare l’attenzione sulla definizione di standard sostanziali, fornendo all’intera comunità internazionale un importante punto di riferimento normativo sull’argomento.

L’Allegato II è dedicato agli “Strumenti operativi”.  Come nelle Linee Guida dell’OCSE, il sistema di “Promozione” dell’utilizzo della Dichiarazione ruota intorno a una rete di “Punti focali nazionali” a composizione tripartita (tramite un’

ampia tipologia di iniziative).  Sulla base delle informazioni ricevute dagli attori nazionali, vengono periodicamente redatti dei Rapporti regionali (di recente sull’Africa, e Asia Pacifico) che devono essere sottoposti al Consiglio d’Amministrazione, cui spetta un ruolo di indirizzo e coordinamento delle attività di promozione, oltre che fornire assistenza tecnica e cooperazione per il tramite dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. La sezione 3 della Dichiarazione disciplina la procedura di risoluzione delle controversie aventi ad oggetto l’interpretazione della Dichiarazione.

d. Gli strumenti dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico –   L’OCSE è l’organizzazione internazionale che per prima si è dotata di uno strumento (di soft law) volto a promuovere la Responsabilità sociale d’impresa nel contesto delle imprese multinazionali. 

Si tratta delle Guidelines for Multinational Enterprises (in prosieguo, Linee Guida) – adottate per la prima volta nel 1976 come allegato alla Dichiarazione sugli investimenti internazionali e le imprese multinazionali – e modificate da ultimo nel 2011, con lo scopo di tenere conto, tra l’altro, del Framework di Ruggie del 2008 e dei relativi Principi attuativi.  Destinate alle imprese multinazionali, le Linee guida hanno istituito Punti di contatto nazionali allo scopo di promuovere la conformità alle Linee guida.

In primo luogo, è stata attribuita importanza centrale alle pratiche di due diligence, come sistema di prevenzione e mitigazione dell’impatto negativo sui diritti tutelati, anche in relazione alla catena del valore.  Lo stesso concetto di “impatto negativo” è stato mutuato da quell’idea di “influenza come impatto” che nella visione di Ruggie serve a delimitare il campo della responsabilità imprenditoriale. 

Inoltre, è stato inserito un nuovo capitolo IV, interamente dedicato al tema dei diritti umani.   Interessanti anche i Capp. III (“Disclosure”) e VIII (“Consumer Interests”) che coinvolgono la società civile e il Cap. V (“Employment and Industrial). Relations”).   In sintesi, tra le imprese e la società civile viene istituita una sorta di doppia responsabilità, per cui le prime, divulgando determinate informazioni rilevanti che le riguardano (disclosure), si rendono controllabili dalla seconda, la quale, per converso, deve essere in qualche modo “educata” al consumo sostenibile, in modo tale da acquisire una migliore comprensione dell’impatto economico, ambientale e sociale delle proprie scelte.   

Da qui – nel corso degli ultimi anni – campagne di denuncia di quello che non va (da parte di associazioni dei consumatori, di sindacati e rappresentanti dei lavoratori, o di altri portatori di interesse) e le conseguenti reazioni delle imprese, che alla propria immagine ci tengono.   Un esempio per tutti? Si pensi alla campagna contro l’utilizzo dell’olio di palma.

In merito al Capitolo su lavoro dipendente e relazioni industriali, il par. 1 richiama innanzitutto i diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione OIL del 1998. 

Inoltre, le imprese sono invitate a “osservare standard […] non meno favorevoli di quelli osservati dai datori di lavoro comparabili nello Stato ospitante.  Nel caso in cui le Multinazionali operassero in Paesi (in via di sviluppo) dove non esistono datori di lavoro comparabili, si raccomanda nondimeno che esse offrano “le retribuzioni, i benefit e le condizioni di lavoro migliori possibili nel quadro delle politiche governative”, e che siano comunque “almeno adeguati a soddisfare i bisogni fondamentali dei lavoratori e delle loro famiglie.  Grande attenzione è poi rivolta ai diritti collettivi, di organizzazione, consultazione e contrattazione.

Manca il diritto di sciopero, ma grande attenzione è rivolta ai diritti collettivi, di organizzazione, consultazione e contrattazione. A tal fine, le imprese devono trasmettere informazioni, preavvisi su decisioni con impatto rilevante sull’occupazione (in modo da mitigarne gli effetti), evitare minacce di delocalizzare il sito produttivo in un altro paese o di trasferire altrove alcuni lavoratori con la finalità di influenzare l’esito dei negoziati o del processo di organizzazione. Nel commento si chiarisce il rapporto di complentarietà che sussiste tra il cap. V delle Linee guida stesse e la dicbiarazione Trapartita dell’OIL. I due strumenti “riguardano entrambi i comportamenti che ci si apetta dalle imprese, e sono intesi come speculari e non confliggenti fra loro”. Malgrado le differenti (e separate) procedure attuative, la Dichiarazione Tripartita “può essere utile per interpretare le Linee Guida, nella misura in cui essa presenta un maggiore grado di elaborazione”.

Benché l’applicazione delle Linee Guida abbia carattere meramente volontario, gli Stati sono tuttavia tenuti a conformarsi alla parte esecutiva, qualora abbiano manifestato la propria adesione.  È prevista una struttura su due livelli:

  • Punti di contatto nazionali tra cui istituzionali rientrano la sensibilizzazione –  sulle Linee Guida-  nel territorio nazionale; la risposta a richieste provenienti da altri  Punti di contatto,  dalla società civile o ancora da Stati non aderenti alle Linee Guida; l’agevolazione della risoluzione pacifica di controversie riguardanti le Linee Guida medesime, anche mediante la consultazione di altri NCP eventualmente coinvolti. Circa le controversie  – per l’indefettibile pubblicazione dei risultati concernenti le procedure (omettendo  le informazioni aventi natura confidenziale) –  sebbene le imprese non siano obbligate a conformarsi a quanto emerso in sede conciliativa, esse dovranno comunque valutare anche le ripercussioni delle proprie scelte in termini di immagine.
  • una Commissione per gli investimenti 

 Oltre alle Linee Guida, l’OCSE ha predisposto, dopo il 2011, una serie di documenti che sono ad esse complementari, e che rispondono, in una certa misura, alle suggestioni dei Principi delle Nazioni Unite.  Il più generale di questi documenti è costituito dalla OECD Due Diligence Guidance for Responsible Business Conduct – approvata dal Comitato per gli investimenti il 3 aprile 2018,  oggetto di una raccomandazione del Consiglio del 30 maggio dello stesso anno. 

Rispetto ai Principi Guida, i sindacati, e i rappresentanti dei lavoratori in genere, sembrano ricevere maggiore attenzione (e, dunque, legittimazione nelle proprie rivendicazioni), essendo più volte citati in maniera autonoma e separata dagli altri portatori di interessi[3]

Altre guide sono settoriali, riguardanti cioè la catena di fornitura di uno specifico settore produttivo, ovvero un determinato aspetto.  La Guida essenziale alla due diligence per il settore dell’abbigliamento e della calzatura” Così, nel box 2 vengono descritti i maggiori rischi in caso di subcontratto ed è elencata una serie di possibili contromisure, tra cui la possibilità di subappaltare i lavori solamente a soggetti previamente approvati dalla committente e la promozione di relazioni commerciali stabili lungo la catena del valore, in modo tale da poter ricostruire più facilmente le fasi in cui si articola il processo produttivo e renderlo dunque maggiormente controllabile. Parimenti, significative raccomandazioni sono fornite anche ai fini della valutazione dei rischi relativi ai fornitori che superano il secondo livello. In particolare, grande attenzione deve essere rivolta alla tracciabilità (traceability) dei processi produttivi, anche mediante l’identificazione dei punti nevralgici, dove il numero dei soggetti coinvolti si assottiglia, ed è quindi più facile esercitare pressione e controllo.

Per un ulteriore approfondimento rinvio alla Tesi di dottorato (Università di Pavia) di Michele Murgo (Tutor, Prof.ssa Mariella Magnani) Global value chains e diritto del lavoro: tecniche per una regolamentazione dell’impresa senza confine (anno accademico 2019-2020) – dotata anche di una ricca bibliografia – un lavoro che ho trovato aggiornato ed utile


[1] Su un totale di 47 membri, la mozione ha ricevuto 20 voti a favore (tra cui Cina e India), 14 contrari (tutti i Paesi europei, con l’aggiunta di Stati Uniti e Giappone) e 13 astensioni.


[2] La Dichiarazione è “una guida per imprese multinazionali, governi e organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori in ambiti quali occupazione, formazione, condizioni di vita e di lavoro e relazioni industriali”.  Il suo scopo è quello di “rafforzare i positivi effetti sociali e sul lavoro delle attività e della governance delle imprese multinazionali, in modo da garantire il lavoro dignitoso per tutti”.  Per raggiungere tale obiettivo, risulta “importante e necessaria” l’applicazione della Dichiarazione “nel contesto del commercio, degli investimenti diretti esteri e del ricorso alle catene globali della fornitura [corsivo aggiunto]”. “Le imprese multinazionali dovrebbero sfruttare la propria influenza al fine di incoraggiare i rispettivi partner commerciali affinché prevedano strumenti efficaci che permettano di porre rimedio agli abusi dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale”.  Questi riferimenti all’esercizio della propria influenza e al rispetto dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, del tutto assenti nelle precedenti versioni della Dichiarazione, riecheggiano evidentemente i Principi Guida delle Nazion

[3]    V., ex plurimis, par. 2.1, lett. b) (raccolta di informazioni per la mappatura dei rischi); par. 4.1, lett. c) (coinvolgimento nel monitoraggio della performance); par. 6.1, lett. b) (riconoscimento del sindacato quale controparte contrattuale); par. 6.2, lett. c) (utilizzo delle procedure di ricorso previste dai contratti collettivi o dagli accordi quadro globali – unica prerogativa “sindacale” già contemplata negli UNGP, nel commento al par. 30). Inoltre, nel cap. I, che contiene una “panoramica della due diligence per una condotta d’affari responsabile” (“overview on due diligence for responsible business conduct”), si afferma che “la due diligence è influenzata dall’interazione con i portatori di interessi” (“Due diligence is informed by engagement with stakeholders”). Ebbene, nello stesso contesto, alla nt. 2 di pag. 18, si precisa che “esempi di portatori di interessi includono i lavoratori, i rappresentanti dei lavoratori, i sindacati (comprese le federazioni sindacali internazionali) […]” (“Examples of stakeholders include workers, workers’ representatives, trade unions (including Global Unions) […]”). 

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