Scritto e diretto da Michele Guardì, “Il caso Tandoy” si preannuncia come l’evento teatrale della stagione per l’attualità dei temi trattati, e per l’originalità con cui spazia dal dramma a momenti di inaspettata comica leggerezza. L’intenzione dell’autore è la messa in scena di uno degli errori giudiziari più clamorosi degli anni sessanta, legato all’assassinio di un Commissario ucciso alla vigilia di un suo trasferimento a Roma, per una promozione. L’Autore costantemente in scena – teatralmente – fa uscire i personaggi dalle cronache dei giornali che ha conservato in mansarda. Questi giornali si accaniscono sugli aspetti scandalistici della vicenda, e su maldicenze a sfondo sessuale. Fissato sul delitto passionale – escludendo qualsiasi altra pista e senza una prova – il Procuratore tiene in carcere per mesi il Primario, due presunti esecutori materiali e persino la Vedova. Due anni dopo, la corte di Assise ha poi assolto tutti “per non avere commesso il fatto”.
Quando il giallo sembra chiuso senza un colpevole, un carrettiere malandato si presenta come l’esecutore del delitto. La verità emerge grazie a un bravo Magistrato che non esita a rendere pubblici certi intrighi della vittima con la malavita della provincia.
Il processo si concluderà con dieci ergastoli. Tutti in galera? Nemmeno uno. Quando, a quindici anni dal delitto, la Cassazione conferma la sentenza, i condannati saranno scomparsi, per motivi vari.
E il Primario – reintegrato da innocente nel ruolo di direttore sanitario del manicomio – in chiusura della commedia[WU1] evidenzia una lapide: “QUI NON TUTTI CI SONO E NON TUTTI LO SONO”.
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