Da Trump a Biden: i rapporti tra USA e Europei – di Silvana Paruolo
SOMMARIO. – I. Trump e gli Europei – Trump e il Medio Oriente – Trump e l’Alleanza atlantica / e la NATO II. La vittoria di Joe Biden – Alcune sue priorità
I. Donald Trump e gli europei – Il 19 dicembre 2019, nella quasi certezza che l’impeachment sarebbe stato fermato al Senato, la Camera, in cui i democratici avevano la maggioranza, ha votato la messa in stato di accusa di Donald Trump, rinviandolo al giudizio del Senato per due imputazioni: “abuso di potere (il presidente avrebbe pressato il leader ucraino Zelensky affinché aprisse un’inchiesta sul suo avversario politico Joe Biden, in cambio di 391 milioni di dollari in aiuti militari già varati; in altri termini, avrebbe minacciato di sospendere gli aiuti militari finché non avesse ottenuto un aiuto contro il suo avversario) e “ostruzione all’indagine del Congresso”. Il tutto in un paese spaccato. “Ponzio Pilato si è comportato meglio di quanto abbiano fatto i democratici con Donald Trump” ha commentato il deputato repubblicano Barry Loudermilk. “Siamo davanti a uno dei più gravi scandali della storia: nessuno prima di Trump è stato mai accusato di aver cercato di usare un governo straniero per interferire in suo favore nelle elezioni a venire. La costituzione andava difesa” ha invece sottolineato Adam Gopnik. Dopo che gli sono stati attribuiti reati fiscali e sessuali, razzismo, violazioni di ogni sorta di leggi, e conflitti di interesse, l’impeachment incriminava Trump per aver tentato di farsi rieleggere con l’aiuto di un governo straniero. 700 tra gli storici più prestigiosi degli USA (da Robert Caro a Douglas Brinkley) hanno firmato una lettera pro – impeachment. Da parte sua, il Presidente – in una lettera al Congresso – usando il linguaggio brutale dei suoi tweet ha trattato gli accusatori come golpisti. Allora, era la terza volta che l’impeachment capitava a un presidente degli USA, essendo già capitato a Andrew Johnson (ne1 1868) e a Bill Clinton (nel 1998).
La politica economica di Trump si è basata su un mix di stimoli alla domanda interna (anche con investimenti pubblici) e neo-protezionismo contro i prodotti di quegli Stati che vantano un surplus commerciale con l’America. Con il suo “America first” Trump ha rinnegato accordi vitali sul clima, sul commercio con l’Asia, ecc. Ha tra altro tirato gli USA fuori dall’Accordo di Parigi sulla lotta ai cambiamenti climatici.
In politica estera, ha elogiato la Brexit, ed ha criticato l’UE tedesca. Ha pubblicamente dichiarato di considerare l’Unione Europea “un mezzo usato dalla Germania per i suoi scopi”, un’istituzione a guida tedesca dalla quale la Gran Bretagna è voluta uscire dimostrando “intelligenza e lungimiranza”. “Angela Merkel – ha affermato – verso la quale in passato ho avuto rispetto, ha commesso un errore catastrofico accogliendo tutti quegli illegali”, un “errore che lui avrebbe evitato, come ha fatto con il suo muro alla “frontiera-colabrodo con il Messico”. Trump non considerava più l’Europa (con la quale intendeva firmare Accordi bilaterali più vantaggiosi) “centrale” per gli interessi degli USA nel mondo. Dopo aver bocciato il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) – quale da Obama concepito, per armonizzare standard (tecnici e anche social) e approcci alla regolamentazione in settori strategici – nel 2018 ha avviato una guerra dei dazi nei confronti degli Europei, poi placata da una Dichiarazione congiunta con la Commissione Juncker (in cui sarà successivamente individuato il cosiddetto TTIP light). Ha manifestato il suo disaccordo sulla “web tax”. Nel quadro del nuovo attivismo USA nei Balcani ha preso posizioni che hanno suscitato non poche perplessità europee. È uscito dall’OMS (Organizzazione mondiale della salute) e da altre organizzazioni internazionali. Ed ha fortemente criticato la NATO, da cui ha minacciato di tirar fuori gli USA. Nel suo progetto iniziale di Piano di pace per il conflitto israelo-palestinese (in cui si prevedeva che Israele poteva annettere il 30 per cento dei Territori palestinesi e avere Gerusalemme come capitale su cui esercitare sovranità unica) Trump non ha sposato la “soluzione dei due Stati” dall’UE difesa. Ed ha annullato lo “stupido” accordo sul nucleare con la Repubblica islamica d’Iran (accordo nel 2015 voluto da europei e Obama. E, senza consultazione alcuna, unilateralmente, ha predisposto l’eliminazione di Soleimani. Successivamente – con gli Accordi di Abramo da lui ideato – ha messo in moto un processo di pace tra Israele e il mondo arabo in chiave anti-Iran. Nell’establishment militare americano si è diffusa la convinzione che le risorse vanno ri-dislocate, e che l’America, per la guerra al terrorismo, ha trascurato le minacce che nel lungo termine possono attentare alla sua sicurezza, e cioè la Cina, e in subordine la Russia.
Trump e Medio Oriente – Il M.O. resta importante per un insieme di questioni, dai migranti al gas, dalla lotta al terrorismo alle tensioni tra Turchia e Grecia, ecc. Già nel gennaio 2017, Donald Trump ha chiarito di volere ritirare le truppe americane dal Medio Oriente portando a termine – in una rara condivisione di obiettivi – una decisione di Barack Obama, e ponendo fine agli interventi militari decisi da George W. Bush in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003). Il che implica un nuovo assetto strategico capace di proteggere gli interessi americani nella regione. Ma – a differenza di Obama e del suo segretario di Stato John Kerry volti a favorire un graduale reintegro dell’Iran nel sistema regionale – Trump ha voluto puntare tutto sui tradizionali alleati di Washington nella regione (Arabia Saudita e Israele) lavorando alla creazione di un fronte anti-iraniano. Da qui decisioni quali il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’”Accordo del Secolo” fortemente sbilanciato a favore degli israeliani (a discapito della causa palestinese), il ritiro americano dall’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action), le ingenti commesse di armi americane dell’Arabia Saudita e la recente normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein ( e successivamente anche il Marocco) con gli Accordi di Abramo.
Gli Accordi di Abramo sono un’intesa storica per la normalizzazione delle relazioni tra questi Paesi. Secondo il leader
israeliano, l’accordo: “annuncia una nuova alba di pace che finirà per espandersi fino a includere altri Stati arabi. E alla fine porrà fine al conflitto arabo-israeliano”. L’emiratino Al-Nahyan ringrazia Netanyahu per “aver scelto la pace e aver fermato l’annessione dei Territori palestinesi”. E il ministro del Bahrein, al-Zayani ha lanciato un appello affinché si raggiunga “la soluzione dei due Stati”. I tre leader ringraziano Trump per la sua ferma leadership. I palestinesi gridano al tradimento: “Gli accordi di normalizzazione tra Bahrein, Emirati e l’entità sionista non valgono la carta sulla quale sono scritti – ha commentato un portavoce di Hamas – il popolo palestinese continuerà la sua lotta fino a che non avrà ottenuto tutti i suoi diritti”.
Maurizio Molinari (la Repubblica 20 settembre 2020) spiega: “L’Accordo di pace tra Israele, Emirati Arabi e Bahreìn ha coinciso con il ritiro di importanti contingenti USA dall’Iraq e l’inizio della trattativa di Doha fra Stati Uniti e talebani afgani, disegnando i contorni di un processo di portata regionale: l’accelerazione del riassetto americano in Medio Oriente in risposta alle mosse, efficaci ed aggressive, compiute dalla Russia negli ultimi 5 anni. … Nel momento in cui Washington prova a portare a compimento i ritiri da Iraq e Afghanistan, getta le basi di un’alleanza per la sicurezza nel Medio Oriente che nasce attorno all’Accordo di Abramo e punta a coinvolgere tutti i Paesi arabo-sunniti. Il coinvolgimento dei cristiani d’Oriente nei nuovi equilibri in Medio Oriente conferma la volontà di Washington di trasformare l’Accordo di Abramo nella cornice in cui risolvere la questione palestinese, sulla base degli accordi di Oslo del 1993 che prevedono “due Stati e due popoli”. Da qui uno scenario in pieno movimento, sostegni, contatti e coinvolgimento di Egitto, Giordania, Lega araba (che si è opposta alla richiesta palestinese di denunciare gli accordi di pace), gli Emirati Arabi protagonisti del patto con Israele, Oman, Sudan, Ciad, Mauritania e isole Comore, Tunisia e Marocco … La Russia è sulle difensive. La Turchia di Erdogan è irritata dall’Accordo di Abramo – rileva ancora, giustamente, M. Molinari – perché l’Accordo “ostacola il proprio disegno regionale che fa leva sull’islam politico dei fratelli Musulmani, ha nel Qatar l’unico alleato nel Golfo e considera la questione palestinese il tema ancora prioritario nei rapporti con Israele. In tale cornice, resta da vedere quale approccio avrà la NATO ad una nuova architettura di sicurezza israelo-sunnita in Medio Oriente … che nasce per contenere l’Iran titolare di un programma nucleare, regista di milizie e di rivolte sciite in più paesi arabi e contrario all’esistenza di Israele… Il tutto lascia intendere la necessità urgente di avere un approccio comune a quanto sta maturando in Medio Oriente”.
Biden, nel Medio Oriente, trova una regione in cui instabilità, frammentazione e conflittualità sono aumentate in maniera esponenziale. Gli spazi lasciati vuoti dagli Stati Uniti hanno fomentato un’accesa competizione tra attori regionali ed esterni, non ultime Turchia e Russia, che complicano ulteriormente la soluzione delle crisi nell’area. Tra l’altro, la regione potrebbe diventare terreno di scontro con la Cina se Pechino decidesse di esercitare un’influenza geopolitica accanto all’ormai consolidata collaborazione economica. Sul versante palestinese, il neopresidente ha già dichiarato che tornerà a spingere per una soluzione dei due Stati. Ma sarà difficile cancellare con un colpo di spugna l’azione del predecessore, ragion per cui Biden ha già annunciato che manterrà l’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Per quanto riguarda le crisi regionali in Siria, Libia e Yemen, Biden ha dichiarato di voler rafforzare la capacità americana di risoluzione dei conflitti. Circa le relazioni con l’Arabia Saudita, Biden ne ha promesso un riesame, compreso il sostegno di Washington all’intervento saudita nello Yemen. Aumenterà la pressione per la situazione dei diritti civili, ma i legami commerciali continueranno, anche se la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio saudita è diminuita notevolmente grazie alla produzione interna di gas di scisto. La stabilità politica del regno resta una delle principali preoccupazioni degli Stati Uniti.
Tornerò sull’Accordo con l’Iran, più avanti, quando ci si soffermerà su alcune priorità del nuovo presidente americano.
Trump e l’Alleanza atlantica / e la NATO – Trump per 4 anni ha picconato allo stesso modo UE e Alleanza atlantica, i pilastri dell’ordine politico e della difesa europea. I Paesi baltici e la Polonia guardano con grande preoccupazione a un eventuale disimpegno americano a protezione dei confini, da sempre, minacciati anche dalla Russia. Ma il presidente Trump ha espresso dubbi sull’art.5 del Trattato di difesa collettiva di tutti i paesi membri. Ha minacciato di chiudere l’ombrello che li ha protetti per 70 anni. Ha definito la NATO (North Atlantic Treaty Organization – Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) – alleanza militare intergovernativa fra 30 Paesi[i] architrave della sicurezza europea e transatlantica per tutto il dopoguerra – un’istituzione “non attrezzata per combattere il terrorismo islamico” e dove “i suoi membri si appoggiano sull’America e non pagano quello che dovrebbero pagare”. Da tempo – anche prima di Trump – gli USA chiedono agli alleati di rispettare i propri impegni finanziari per la difesa, minacciando una limitazione del proprio impegno nei confronti dell’organizzazione: e in effetti, molti paesi, tra cui l’Italia, non rispettano i patti del 2% del PIL per la difesa.
Solo recentemente c’è stato un aumento dei pagamenti di alcuni paesi (160 miliardi di dollari in più dal 2016 e stima di altri 400 miliardi entro il 2024). Di conseguenza, pur avendo egli stesso in più occasioni parlato di una “NATO obsoleta”, in risposta all’intervista rilasciata da E. Macron al “The Economist” in cui il presidente francese ha parlato di “morte cerebrale” della NATO (l’allusione agli USA è evidente) – riconciliandosi con l’utilità della NATO nel rivendicare la paternità dell’incremento delle spese in materia di difesa dei membri NATO – Trump ha definito[ii] “molto molto cattiva l’affermazione di Macron” nei confronti dei paesi membri dell’Alleanza, assicurando che nessuno più della Francia (“che ha un tasso di disoccupazione molto alto “ e che “non funziona sul piano economico”) ha bisogno della NATO. Da qui la replica di Macron[iii]: “quando si parla di NATO, non si tratta solo di soldi… Dobbiamo essere rispettosi dei nostri soldati. Il primo fardello che condividiamo – il primo costo che paghiamo – è la loro vita. Oggi servono chiarimenti sulla strategia… Ci sarebbe da definire con chiarezza i principi fondamentali di quello che la NATO dovrebbe essere”. E ancora: “che ne è della pace in Europa?”: chiede Macron, riferendosi alla incertezza sull’uscita degli USA dal trattato sulle forze nucleari a portata intermedia. Vorrei dei chiarimenti… Quando si parla del nemico, direi, qual è l’obiettivo? Proteggere i nostri partner dalle minacce esterne. La Francia lo farà. E saremo solidali nei confronti dei paesi dell’Est e del Nord dell’Europa. Ma il nemico comune oggi sono i gruppi terroristici. E mi dispiace dirlo, oggi, a questo tavolo non abbiamo più la stessa definizione del terrorismo”. Riferendosi all’iniziativa militare turca dell’ottobre 2019 nel nord-est della Siria contro le milizie curde alleate degli USA – cui gli americani non si sono opposti – Macron ha criticato la Turchia “che sta combattendo chi si è battuto per noi” contro l’organizzazione Stato islamico (EI). In effetti, con la decisione del ritiro delle proprie forze, Trump ha favorito l’inizio dell’offensiva turca nel nordest della Siria, territorio controllato dai curdi, i miliziani curdi delle Unità di Protezione Popolare (più conosciute con la sigla YPG) che la Turchia accusa di essere dei terroristi. Gli effetti dell’offensiva turca sulla popolazione civile sono stati devastanti, e sotto gli occhi di tutti.
Trump (a Londra, all’anniversario NATO) rimanendo impassibile non ha dato alcun chiarimento in merito. Ma si è vantato, di nuovo, del rialzo delle spese di difesa dei paesi membri, deplorando un fardello finanziario troppo a lungo troppo pesante per gli USA.
E – nel corso della conferenza stampa – ha tentato di mettere in difficoltà gli europei riprendendo la domanda di un giornalista sulla sorte dei combattenti stranieri dell’EI (Stato islamico), catturati e prigionieri. “Molti – ha precisato – vengono da Francia, Germania e Inghilterra…li volete?”. Per me – ha replicato Macron – “il primo obiettivo è quello di finire il lavoro” contro l’EI.
“Se Trump verrà rieletto – sottolineava Leon Panetta ex capo di Pentagono e Cia (La Stampa 22 settembre 2020) prima delle elezioni presidenziali negli USA – c’è una minaccia molto reale che ritiri gli USA dalla NATO”.
Intanto nelle tensioni nel Mediterraneo orientale, la NATO sta svolgendo un ruolo di pompiere, e le divergenze tra Grecia e Turchia non hanno fermato esercitazioni e missioni NATO comuni dentro l’Alleanza, ad esempio, nel Kosovo o in Afghanistan.
Inoltre, come precisato da Lucio Caracciolo in liMes: “la vera posta in gioco nello scontro interno al trangolo Russia-Germania-Stati Uniti accentuato dalla crisi bielorussa e dal caso Naval’nyj giace presso i fondali del Mar Baltico, in prossimità di Greifswald, al capolinea del gasdotto Nord Stream 2”. Per questo gasdotto (dal produttore russo al consumatore tedesco) mancano pochi chilometri all’aggancio. La rivolta contro Lukashenko e l’avvelenamento di Naval’nyj hanno spinto allo scoperto i suoi avversari storici (polacchi, e altri baltici, più ucraini e altri europei centro-orientali) che equiparano questo gasdotto al patto sovietico-germanico che nel 1939 aprì la porta alla doppia invasione e alla spartizione della Polonia. Diversi paesi europei e gli USA hanno ammonito Mosca e Berlino a seppellire il tubo sottomarino. E hanno minacciato sanzioni. Mosca non vuole cedere. Merkel è sotto pressione: ogni sanzione contro Mosca è anche un’azione contro Berlino, e gli europei esposti con la Russia. Ma se allenta i legami con Mosca, rischia rappresaglie russe.
Dopo l’azione militare (ottobre 2019) in Siria del Presidente turco Erdogan, molti si son chiesti: a cosa servono NATO e UE? Domanda legittima, in un momento in cui la Turchia – un membro dell’Alleanza atlantica, e della NATO, che voleva entrare nell’UE – “per la sicurezza dei propri confini” ha avviato un’operazione militare contro la Siria e i curdi (da Erdogan considerati dei terroristi), mettendo a rischio la sicurezza anche dei paesi europei. In quell’occasione, né Bruxelles né l’Alleanza atlantica hanno fatto sentire la loro voce con forza. Italia e Francia hanno convocato i rispettivi ambasciatori turchi. L’UE – priva com’è di un vero esercito europeo, e di una vera politica estera – si è dimostrata debole e senza una posizione unitaria.
Alle blande proteste europee, Erdogan ha risposto, arrivando a minacciare l’Europa: “Se l’UE ci accuserà di occupazione della Siria e ostacolerà la nostra operazione militare, apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi!”, minaccia poi, nel marzo 2020, da lui effettivamente realizzata, provocando un’immensa crisi umanitaria ai confini tra Turchia e Grecia)[iv]. Successivamente, Turchia e Russia hanno concluso un «accordo storico» per una nuova tregua nel nord della Siria, e per completare l’evacuazione delle milizie curde Ypg da un’area di 30 km dal confine siriano… Poi – nel novembre 2019 – nonostante i precedenti annunci di ritiro delle truppe statunitensi pronunciati dal presidente Donald Trump, gli Stati Uniti hanno ricominciato a compiere operazioni militari contro lo Stato Islamico (o ISIS) nel nord e nell’est della Siria.
Tra i paesi NATO, permangono frizioni e divisioni, tra cui: il caso Turchia – invasione turca della Siria (al Vertice di Londra, Erdogan ha anche minacciato di mettere il veto sull’impegno a difendere i paesi baltici dalla minaccia russa, se non si dichiaravano i combattenti curdi “gruppo terrorista”, ma la sua richiesta è stata rifiutata in blocco) – e tensioni Turchia- Grecia-Cipro nel Mediterraneo orientale; l’annosa questione della linea Internet ultra-veloce 5 G, cui la cinese Huawei vorrebbe partecipare (ipotesi irricevibile per Trump); minacce incrociate di dazi e guerra commerciale, a causa della “tassa digitale” ai colossi hi-tech americani nelle Agende di Francia, Italia e Regno Unito; (per bilanciare la penetrazione strategica della Cina) un migliore dialogo (“deterrenza e dialogo”) con la Russia, su cui alcuni paesi (Gran Bretagna, Germania, Polonia, i Baltici) sono più cauti di altri; la sfida globale del disarmo; la questione libica; la Bielorussia; , ecc. E c’è stato anche da fare i conti con le conseguenze multiple della decisione unilaterale di Trump sull’uccisione dell’iraniano, Soleimani.
La morte di Soleimani non è stata una dichiarazione di guerra, ma un atto in una guerra già iniziata, in cui gli americani stavano perdendo terreno per non aver reagito all’attacco del 14 settembre contro installazioni petrolifere in Arabia saudita. Il problema è che la dissuasione non è stata ristabilita anche per gli alleati dell’America. Sia pure in presenza di venti contrari a diplomazia e concertazione – alla ricerca di un punto di equilibrio – gli europei hanno invitato alla distensione, e al dialogo.
Al vertice di Londra (3 dicembre 2019) in occasione dell’anniversario NATO, Macron arrivato accusando Erdogan della repressione dei curdi che occupavano una zona oltre confine tra la Turchia e la Sira, e per avere acquistato da Mosca il sistema difensivo missilistico S-400, si è poi calmato (grazie alla mediazione statunitense). Ha reso omaggio al popolo turco. E ha dato il benvenuto, insieme agli altri paesi NATO, al beneplacito turco riguardo agli armamenti difensivi da installare nei paesi Baltici e in Polonia. Allo stesso vertice, è nato un Comitato di esperti allo scopo di rivedere il meccanismo decisionale dell’Alleanza atlantica, anche in vista di un ruolo meno centrale degli USA, e di un maggior impegno europeo.
II. La vittoria di Biden – Con le presidenziali americane del 3 novembre 2020 (nonostante l’impeachment, la pessima gestione della pandemia di Covid-19, i conflitti di interesse e l’opacità delle sue finanze) non c’è stato l’atteso ripudio di Trump e del suo discorso (protezionismo, chiusura all’immigrazione, tasse a livelli minimi e smantellamento delle protezioni sociali, deregolamentazione finanziaria e ambientale, nonché un aggressivo unilateralismo in politica estera).
Il trumpismo continuerà a vivere. Ma – se la performance di Trump è stata formidabile – quella di Biden (raggiungendo il primato di preferenze – con il record di più di ottanta milioni di voti) è stata migliore. Nonostante i ricorsi di Trump, è stato eletto nuovo Presidente degli USA. “In America abbiamo elezioni libere, il risultato va rispettato” ha dichiarato il neo-presidente americano. E la sua vittoria è stata accolta – a diverse latitudini – con un sospiro di sollievo: niente più braccio di ferro commerciale, attacchi ad alleati storici, e polically incorrect!
Mosca e Pechino (in controtendenza rispetto al resto del mondo) con dichiarazioni quasi fotocopia, hanno spiegato che le congratulazioni al neo eletto presidente degli Usa Joe Biden sarebbero arrivate a conta dei voti ultimata. Riteniamo corretto attendere la conclusione ufficiale delle elezioni”, ha dichiarato il Cremlino, posizione simile a quella del ministero degli Esteri cinese, che rinnova – una volta di più – l’asse geopolitico sino-russo. Considerando la conflittualità fra Stati Uniti e Cina nell’era Trump (che rischia anche di accentuarsi nell’era Biden) e la schizofrenia nei rapporti con la Russia, questa cautela non ha sorpreso più di tanto. Successivamente, congratulandosi con Biden, il leader cinese Xi ha auspicato la promozione di uno “sviluppo sano e stabile delle relazioni sino-americane”.
“L’Iran e gli USA – ha affermato da parte sua Rouhani – possono tornare alla situazione prevalente fino al gennaio 2017”.
La vittoria di Biden è invece piaciuta poco ai populisti nazionalisti europei (e in particolare ai populisti britannici) che trovavano in Trump un leader e un modello da seguire. Per ricordare che il presidente uscente è stato per lui un ispiratore, il primo ministro ceco, Andrej Babis, ha indossato il berretto rosso trumpista “Make America Great Again”. Per indicare il loro disappunto, il presidente polacco, Andrzej Duda, e il primo ministro ungherese Viktor Orban si sono limitati a mandare gli auguri a Joe Biden per “il successo della campagna” e non per la sua vittoria, nell’attesa di un cenno di Donald Trump”. I dirigenti populisti di questa regione – verso cui Joe Biden ha indirizzato qualche parola molto dura durante la campagna – c’erano già prima di Trump (Viktor Orban e il partito Fidesz sono al potere dal 2015). La vittoria di Biden mostra che i loro successi possono cambiare. Ciò detto, è vero anche che il nazionalismo populista non è stato sconfitto. Si è registrata un’inversione di tendenza.
Per Angela Merkel, Germania e USA sono partner fondamentali e devono continuare a lavorare insieme per affrontare questioni di rilevanza prioritaria, come la pandemia da coronavirus, il cambiamento climatico e il terrorismo. Per quanto riguarda il tema della spesa militare e della partecipazione tedesca all’Alleanza atlantica, la Merkel ha riconosciuto che l’impegno di Berlino dovrà essere più consistente. “Noi tedeschi ed europei sappiamo che, in questo partenariato, dobbiamo assumere più responsabilità. L’America è e resta il nostro alleato più importante” – ha precisato la cancelliera – “Washington si aspetta da noi, e giustamente, sforzi più grandi sul fronte della sicurezza, in campo, per difendere le nostre convinzioni nel mondo”. La Germania e l’Europa sono pronte ad affrontare “fianco a fianco agli Stati Uniti e al presidente Joseph Biden” le sfide mondiali. Nella sua telefonata di congratulazioni con Biden, il Presidente francese E. Macron, ha parlato di clima, crisi sanitaria e lotta al terrorismo. “La comunità internazionale – ha sottolineato il Presidente Mattarella – ha bisogno del contributo statunitense a lungo protagonista nel costruire le regole del multilateralismo, per affrontare una crisi senza precedenti che sta mettendo a repentaglio la salute, la vita e l’avvenire di milioni di persone”. “Siamo pronti a lavorare con il presidente eletto Joe Biden per rafforzare le relazioni transatlantiche. Gli Stati Uniti possono contare sull’Italia come un solido alleato e un partner strategico” ha sottolineato il Presidente Conte. “Congratulazioni al presidente eletto Joe Biden. L’amicizia tra Italia e Stati Uniti ha radici profonde e storiche. Pronto a continuare a lavorare per rafforzare le nostre relazioni in difesa della pace e della libertà” ha twittato il ministro Di Maio.
Alcune sue priorità – L’esito elettorale del Presidente eletto, Joseph R. Biden è stato di stretta misura. Nonostante l’incompetenza autocratica di Trump, più di 70 milioni di americani volevano che restasse alla presidenza per altri quattro anni. Scelta la linea della transizione conflittuale, in politica estera Trump ha anche provato a bruciare i ponti dietro di sé per impedire ai democratici di cambiare rotta. Ma, dal 20 gennaio 2021, gli Stati Uniti torneranno ad essere un caposaldo dei valori liberali e pluralisti, delle istituzioni democratiche, della cooperazione internazionale e della difesa dei diritti umani.
Il 46° Presidente Joe Biden, e la sua Vice Kamala Harris (nata da mamma indiana e papà giamaicano, prima donna a ricoprire questo incarico) fanno calare il sipario sulla misoginia e il razzismo degli ultimi quattro anni.
Nel momento in cui si scrive, la nuova squadra (un mix di fedelissimi a Biden con qualche prestito di Clinton e Obama) è oramai quasi definita. Antony Blinken (prossimo Segretario di Stato) – che ha già parlato di “umiltà e fedeltà verso gli alleati” – dovrà occuparsi anche dell’Iran.
Jake Sullivan (nominato nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale) è un teorico dell’intervento umanitario. In un suo twitt del 25 novembre – riferendosi alla situazione in Etiopia – ha scritto di “essere preoccupato per il rischio di violenza contro i civili. I civili devono essere protetti e deve essere aperto il corridoio umanitario. Entrambi le parti dovrebbero iniziare immediatamente il dialogo”. Da lui ci si aspetta un ruolo chiave anche nella strategia di riequilibrio con la Cina e sull’asse Asia-Pacifico. Inoltre Sullivan ha fatto parte dei diplomatici USA scelti da Obama per incontri segreti (in Oman e a Ginevra) con una delegazione degli ayatollah di Teheran. Sarà fondamentale quando ci sarà da ridefinire un nuovo Accordo nucleare e i rapporti con l’Iran, il nemico che Trump avrebbe voluto bombardare prima di lasciare la presidenza, dopo un programma sanzionatorio di massima pressione (inasprito prima del 20 gennaio 2020) e dopo aver promosso in funzione anti-iraniana (con gli Accordi di Abramo) l’alleanza regionale di Israele con Paesi sunniti. Di recente è stato assassinato anche Moshen Fakhrizadeh principale scienziato iraniano nucleare. Poiché la squadra di Biden si troverà davanti al paradosso di dovere invertire una politica che agli USA ha dato un vantaggio strategico “diviene cruciale – scrive giustamente Paolo Quercia (IAI) – il ruolo dell’Europa e degli alleati degli USA su cui Biden vuole nuovamente costruire un nuovo equilibrio internazionale, per resettare la partita e riavviare una nuova fase”. In Iran, ad oggi, alle prossime elezioni parlamentari di marzo, dopo l’indebolimento del fronte dei modernisti, ci si aspetta una sua sconfitta a vantaggio di conservatori e nazionalisti.
Avril Haines è la nuova direttrice della National Intelligence. Linda Thomas-Greenfiled è l’ambasciatrice all’ONU. A Yanet Yellen (designata al Tesoro) spetta lo sblocco di una manovra di spesa pubblica che aiuti famiglie e imprese. Il cubano Alejandro Mayorkas è il nuovo superministro degli interni cui spetta il comando della polizia di frontiera e l’Immigration Service. Dovrà ricostruire la Homeland Security – che include il terrorismo – un’Agenzia che durante il mandato di Trump ha attuato misure sull’immigrazione molto rigide. La nuova Amministrazione si ripropone di smontare, subito, alcuni editti anti-immigrati di Trump quali la separazione di figli e genitori alla frontiera, l’uso di gabbie per la detenzione, l’espulsione di giovani immigrati arrivati negli USA da bambini. L’”amnistia per 11 milioni di clandestini” andrà però concordata con i repubblicani.
L’energia è stato uno dei temi centrali della campagna per le elezioni presidenziali. Donald Trump ha difeso il petrolio e shake gas, il cui boom negli ultimi anni ha creato molti posti di lavoro e consentito agli USA di raggiungere l’indipendenza energetica. Joe Biden ha sostenuto l’esigenza di programmare la transizione energetica da fonti fossili a rinnovabili, completandola entro il 2050. Il nuovo Mister clima USA sarà John Kerry, cui spetta il compito di invertire le politiche negazioniste di D. Trump e il ripristino delle politiche ambientali (otre 100 norme e regolamenti sull’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dell’atmosfera, da Trump annullati). Kerry ha già sottolineato: “il lavoro che abbiamo iniziato con l’Accordo di Parigi è lungi dall’essere concluso” e bisogna andare oltre. Intanto, i danni provocati dall’inquinamento dei gas serra scatenati dalle revisioni del presidente Trump potrebbero avere conseguenze più profonde del suo unico mandato. Le sue azioni – a livello nazionale e internazionale – hanno anche contribuito ad incoraggiare i leader di alcune altre grandi economie ad indebolire i livelli di emissione di gas serra. “C’è stato un effetto domino” sottolinea Laurence Tubiana, ambasciatore francese per il clima durante i negoziati di Parigi del 2015. Il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, si è ispirato a Trump sulle questioni climatiche, definendo il movimento per la riduzione del riscaldamento globale un complotto dei “marxisti” per frenare la crescita. E il primo ministro dell’Australia, Scott Morrison (come Trump) ha rimosso il legame che esiste tra il cambiamento climatico e gli incendi boschivi, promuovendo nello stesso tempo l’uso del carbone.
La priorità delle priorità del nuovo Presidente degli USA sarà la lotta al Corona-19 e vaccino per tutti. Tra l’altro, il coronavirus ha fatto capire all’opinione pubblica la situazione della classe lavoratrice in America: lavoratori / persone un tempo sindacalizzate con retribuzioni basse e del tutto privi di protezione. Trump, nel Comitato Nazionale per le relazioni industriali, ha imposto la nomina di membri ostili al mondo del lavoro. Inoltre ha offerto agevolazioni fiscali a imprese (grandi e piccole) proponendo tagli massicci al settore dell’istruzione, dell’alloggio e dei programmi alimentari. Ha cercato di escludere 32 milioni di persone dall’assistenza sanitaria, presentando bilanci che richiedevano tagli di miliardi di Medicare, Medicaid e previdenza sociale. E, nel suo tentativo di esser rieletto è ricorso anche a razzismo e xenofobia.
Joe Biden – come ben sottolineato da Le Monde – ha condotto una campagna elettorale a favore di una politica progressista del lavoro, e per attuare gran parte della legislazione del lavoro proposta dai Democratici nel 2019-2020. Nel mese di luglio, ha affermato che avrebbe spinto per aumentare a 15 dollari l’ora il salario minimo a livello federale – mai aumentato dal 2009 (anno in cui fu innalzato a 7.25 dollari) – e per eliminare i salari da miseria. Inoltre, si è impegnato a firmare la legge sulla tutela del diritto sindacale (la legge PRO Act) per rafforzare la sindacalizzazione dei lavoratori. Consentendo ai lavoratori di formare un sindacato tramite le elezioni in cui i lavoratori firmano un modulo che autorizza il sindacato a rappresentarli, questa legge consente la diffusione dei sindacati. Durante la sua campagna elettorale – per fornire, ai datori di lavoro e ai lavoratori in prima linea, un orientamento su cosa fare per contenere la diffusione del Covid-19 – Biden ha suggerito: “lo sblocco e rispetto immediato dello Standard per l’Emergenza Temporanea” e il “raddoppio del numero di ispettori in materia di salute e di sicurezza sul lavoro per il rispetto della legge, degli standard e delle linee guida esistenti”. E, probabilmente, una delle prime cose che l’amministrazione Biden farà, sarà incaricare l’Amministrazione per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro del Dipartimento del Lavoro di intensificare l’applicazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, anche attraverso l’emanazione di uno Standard per l’Emergenza Temporanea, o di una serie di Linee guida, che indichino come un datore di lavoro debba proteggere i lavoratori dal Covid-19, e che aumentino le sanzioni ai trasgressori. Inoltre, Biden ha promesso una Commissione Nazionale per le Relazioni Industriali più rispettosa del lavoro. La composizione della National Labor Relations Board (responsabile dell’applicazione della legge del lavoro e della risoluzione delle controversie tra sindacati e datori di lavoro) è stata modificata da Trump per far passare una serie di decisioni favorevoli alle imprese (tra cui la richiesta di classificare gli autisti Uber i come lavoratori autonomi, anziché lavoratori dipendenti).
Parte dei Democratici sostiene l’estensione dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale, un Piano di azione contro il cancro, la gratuità di college e università, la fine di un sistema di giustizia criminale razzista. Che si tratti di sanità, clima o immigrazione, Joe Biden si ripropone quindi di riparare i danni fatti da Trum. Conta resuscitare Obamacare. E intende rafforzare Medicaid (assistenza pubblica per i più poveri) eliminando alcune limitazioni poste da Trump come quella che richiedeva certi obblighi lavorativi per ottenere la copertura. Sostiene la creazione di milioni di posti di lavoro ben retribuiti, contrastando il cambiamento climatico e ricostruendo infrastrutture. Ha anche prospettato aumenti delle tasse per ricchi, e grandi società, e un incoraggiamento alla produzione anche attraverso il commercio. Da qui un’Agenda caratterizzata da un nazionalismo economico non molto diverso – nella sostanza – da quella di D. Trump. Il 25 gennaio 2020 (5 giorni dopo il suo insediamento) ha firmato un ordine esecutivo per costringere l’Amministrazione a comprare più prodotti americani. D’ora in avanti, perché un prodotto possa essere considerato “made in USA”, più del 50% dei suoi componenti deve provenire da aziende americane. Inoltre, una società americana può essere selezionata durante una gara d’appalto anche se costa il 20% in più rispetto a un concorrente straniero. Da qui un commento leggibile su Le Monde: “Gli USA trarrebbero vantaggio dal sostenere le regole di reciprocità che faciliterebbero l’accesso a nuovi mercati all’estero” Per i suoi costi “il messaggio di Biden rischia di essere inefficace per i lavoratori americani e controproducente per relazioni transatlantiche in un momento in cui gli USA e l’UE avrebbero bisogno di unirsi contro la Cina per costringerla a rispettare finalmente le regole del commercio internazionale”.
In Politica estera…. – Dai segnali lanciati da Biden e i suoi principali collaboratori l’accento dovrebbe essere posto su alcuni punti: la riscoperta del multilateralismo efficace, il rinsaldamento delle alleanze con il fronte dei paesi democratici, il confronto diplomatico con le potenze autoritarie, attenzione alle aree in via di sviluppo. Biden ha attivato il dialogo con i leader alleati dei due paesi vicini (Canada e Messico) con cui vuole rafforzare la “special relationship”. E (al contrario di Trump che per 4 anni ha picconato allo stesso modo UE e Alleanza atlantica) ha ribadito l’impegno degli USA per la difesa collettiva ai sensi dell’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico e ha sottolineato il suo impegno a rafforzare la sicurezza transtlantica, anche attravreso la NATO e la partership degli USA con l’UE”.
Nella tradizione democratica, l’Amministrazione Biden pone l’accento sui diritti umani. Da qui già due segnali forti alle due superpotenze rivali, Russia (per i casi Navalnyi e Ucraina) e Cina (per uiguri – e Taiwan). Circa la Russia – sottolineava Michael Carpenter su “La Stampa” – “Puntiamo ad unificare gli alleati per misure che potenzino militarmente la NATO, e impongano costi a Mosca quando ha comportamenti ostili, o mina la sovranità di atri Paesi. Allo stesso tempo vogliamo promuovere la stabilità, aumentando il dialogo sul controllo degli armamenti e la riduzione dei rischi. Finché la Russia mantiene truppe in Ucraina e occupa territori sovrani, non dobbiamo togliere le sanzioni. Sarà importante sederci con i partner europei, inclusa l’Italia, per allineare le nostre visioni, contenere l’aggressione russa, impedire di sovvertire le nostre democrazie. Il futuro potrebbe portare a una relazione più produttiva, ma non dobbiamo essere ingenui e pensare che sia dietro l’angolo”.
La Russia è un Partner strategico o si avvia a diventare un rivale strategico? Dopo il suo insediamento (20 gennaio 2020) il presidente Jo Biden ha dovuto rapidamente affrontare la proroga della scadenza dell’ultimo accordo con la Russia per il controllo delle armi nucleari rimaste, il Nuovo Trattato Start, che Trump si è rifiutato di firmare. Biden si è espresso anche a favore del mantenimento del Trattato Open Skies Treaty negoziato trent’anni fa per permettere ai paesi di sorvolare il territorio di un altro paese, utilizzando sensori elaborati per assicurare che non si stiano preparando a compiere azioni) da cui Trump ha ufficialmente ritirato gli Stati Uniti militari. Ma, se da un lato, è pronto a prorogare per altri 5 anni il Trattato Start (in scadenza il 5 febbraio) per il controllo degli arsenali nucleari – il che riporta USA e Russia all’epoca delle grandi intese ridando alla Russia il rango di superpotenza – dall’altro lato, evitando l’atteggiamento compiacente di Trump, ha espresso preoccupazioni (e non esclude nuove sanzioni) sulle interferenze russe nelle elezioni, sui cyber attacchi, sull’avvelenamento di Navalnyi (in carcere dal 17 gennaio) e sulla violazione dei diritti umani. L’occidente difende Navalnyi. Il Dipartimento di stato americano ha “condannato con forza l’uso di metodi brutali contro manifestanti e giornalisti in diverse città della Russia” chiedendo a Mosca di rilasciare “in modo incondizionato” Navalny e “tutte le persone detenute per aver esercitato i loro diritti universali” scolpiti “non solo nella Costituzione russa ma anche negli impegni di Mosca verso l’OSCE e verso la Dichiarazione universale dei diritti umani, nonché nei suoi obblighi in base al Patto Internazionale sui diritti civili e politici”. Biden ha promesso di “stare a fianco dei nostri alleati e partner in difesa dei diritti umani”. Ed ha anche riconfermato la linea dura sull’Ucraina: gli USA danno forte sostegno alla sovranità di Kiev contro “l’aggressione russa in corso”.
Da parte sua, il Presidente Putin si è detto a favore della “normalizzazione delle relazioni tra USA e Russia “nell’interesse di entrambi i Paesi e dell’intera comunità internazionale”.
La rivalità strategica è nei confronti della Cina. Gli USA di Biden sembrano ri-confermare una linea dura nei confronti della Cina, anche se con metodi diversi e coinvolgendo gli alleati. La Casa Bianca conferma la linea dura di Trump contro i “fornitori non affidabili” di 5 G come la cinese Hawei (accusata di spionaggio, anche se non è ancora chiaro). Alleati avvisati. Il Dipartimento di Stato ha lanciato un duro attacco, condividendo l’accusa di genocidio contro gli uiguri, e per le pressioni cinesi (militari diplomatiche ed economiche) su Taiwan: “noi saremo schierati con amici e alleati per promuovere la nostra comune prosperità e sicurezza nell’area dell’Indo-Pacifico e questo include un rafforzamento dei nostri legami con la democratica Taiwan”. E gli USA non sembrano cambiano linea sul Mar cinese, e hanno confermato di restare schierati con le nazioni del Sudest asiatico che “resistono alla pressione della Cina”. Il Mar cinese è oggetto di una contesa internazionale in cui la Cina non ha diritti assoluti, anche se rivendica tutto il Mar cinese meridionale (ricco di energia, importante rotta commerciale, un bacino interno in cui la Cina non può non giocare mosse di potenza contro paesi minori come Filippine, Brunei, Vietnam, Malesia e Taiwan).
Inoltre Biden, il suo Dipartimento di Stato e il Consiglio di sicurezza hanno già tracciato altre linee di Politica estera: rafforzare es ampliare gli accordi di Abramo tra Israele e i Paesi Arabi (lo Stato ebraico ha appena inaugurato la sua ambasciata a Abu Dhabi), un Accordo “più forte e più duraturo” con l’Iran sul nucleare, una” nuova strategia” contro la minaccia nordcoreana, la revisione dell’Accordo di pace siglato da Trump con i talebani in Afghanistan. Gli USA di Biden hanno momentaneamente sospeso la vendita di caccia F-35 agli Emirati arabi. E porranno fine, in tempi rapidissimi, a qualsiasi genere di supporto all’intervento saudita in Yemen. Inoltre, la Cia ha riconosciuto il coinvolgimento dell’erede al trono saudita nell’uccisione di Jamal Khashohhi, giornalista del Washington Post ucciso al consolato saudita di Istanbul.
Biden farà rientrare gli USA nelle istituzioni da cui l’Amministrazione Trump si è ritirata (o ha minacciato di volerlo fare) – come l’Organizzazione mondiale della salute (OMS), UNESCO e Commissione ONU sui diritti umani – e rilancerà Accordi internazionali come quello di Parigi sulla lotta ai cambiamenti climatici oltre che quello sul nucleare con l’Iran. Affronterà con serietà la difesa dei diritti umani. Tornerà a costruire coalizioni (invece di demolirle). L’America è tornata” – ha dichiarato presentando ufficialmente il primo nucleo della sua squadra di governo – “Gli Stati Uniti vogliono sedere al capotavola del palcoscenico internazionale e così come ci opporremo agli avversari, lavoreremo sempre con gli alleati”. Rilancerà la NATO e le relazioni con gli alleati europei. Ma senza rinunciare ad alcune politiche commerciali dell’”America first” di Trump. Il “Buy America” di Biden non è sostanzialmente molto diverso dal protezionimo di Trump.
Biden e UE-NATO – Dai membri della NATO, la vittoria di Joe Biden è stata accolta con un sospiro di sollievo. Ci sarà da ricucire gli strappi che si sono accumulati con un Donald Trump che (considerando l’obsoleta struttura dell’Alleanza atlantica un relitto della Guerra Fredda che metteva i bastoni tra le ruote al suo tentativo di arrivare a una distensione con la Russia di Vladimir Putin) ha sparato a zero su Paesi che si pensavano alleati quasi “naturali” degli Stati Uniti. Inoltre, la NATO è frammentata e denota un arretramento della democrazia. Si pensi per esempio al comportamento della Turchia. Ma Biden è un atlantista. Metterà grande enfasi sul suo rafforzamento, sia in termini di difesa e deterrenza, sia in termini di coesione (la coesione sarà prioritaria). L’importanza della difesa collettiva e dell’alleanza atlantica saranno ribadite, e l’Unione europea sarà trattata come un vero partner, sottolineano più analisti.
La condivisione del fardello (delle spese) resta un importante principio NATO, ma con pandemia e crisi economica ci sarà forse più flessibilità circa il rispetto del 2% del PIL da investire nella Difesa. Ci sono – sottolineano intanto fonti americane – investimenti su mobilità e prontezza militare, che non rientrano in quelli per la difesa, ma possono essere conteggiati per i Paesi che li espandono.
Se – per l’Europa – Trump è stata la tempesta, l’arrivo di un internazionalista rappresenta la quiete dopo la tempesta. Washington lavorerà, non in contrapposizione, bensì a fianco – dell’UE nei Balcani. Dialogherà. Si coordinerà, con gli europei, su Ucraina, Bielorussia, Caucaso, Russia, Turchia, Medio Oriente ecc. Accoglierà con favore la mediazione europea per facilitare il proprio ritorno nell’Accordo nucleare con l’Iran. Dalla risposta alla pandemia al clima, dalla non proliferazione alla ripresa economica, in Biden gli europei troveranno di nuovo un Partner americano nella governance globale. Ma, dove stabilire l’equilibrio tra il potere americano e la sovranità europea? Con Trump si è ben capito che l’Europa non è più all’ombra o al riparo di una benevolenza americana garante della sicurezza, data totalmente per scontata. Il dibattito in Germania influenzerà gli altri paesi – soprattutto i paesi nordici – che fanno dell’atlantismo l’alfa e l’omega della loro politica di sicurezza.
L’Unione europea – sotto impulso della Germania e della Francia – vuole provare ad avere un’Agenda strategica autonoma anche dagli USA, partner storico che rimarrà tale ma con nette differenze rispetto al passato. L’autonomia europea non è incompatibile con un più forte legame transatlantico. Ne è la base. Se l’Europa riuscisse a diventare più coesa, e a proporsi come Continente unito, potrebbe utilmente dare una mano a Biden nel ridisegnare più costruttivi rapporti ed equilibri internazionali.
In materia di sicurezza, gli Europei (pilastro europeo dell’alleanza atlantica) dovrebbero precisare le loro aspettative e i punti su cui sono pronti a impegnarsi di più. E l’Italia? Potrebbe contribuire con assetti in Medio Oriente e nel Mediterraneo, dove gli USA si ritirano? “Certo è un tema su cui dobbiamo coordinarci – precisa Michael Carpenter (La Stampa, 11 novembre 2020) – Sarete molto importanti per la strategia meridionale della NATO, riguardo Nord Africa e Mediterraneo, che va rafforzata. In queste regioni guarderemo a voi per un ruolo guida, anche per le migrazioni. In Libia siete molto impegnati. E ciò è utile. La NATO deve sviluppare una strategia meridionale più complessiva, ma sulla Libia l’UE potrebbero guidare (nonostante la rivalità Italia-Francia). Questo è un caso dove ci vuole coordinamento, nella NATO e nell’UE, e gli USA devono favorirlo”.
Nel contempo,Biden intende convocare un “Vertice delle democrazie”. Come scriveva in suo articolo su Foreign Affairs, il vertice “riunirà le democrazie del mondo libero…per rinnovare lo spirito e lo scopo condiviso delle nazioni del mondo libero…per rafforzare le nostre istituzioni democratiche, affrontare onestamente le nazioni che si stanno ritirando (dalla democrazia) e forgiare un’Agenda comune” (tra l’altro) per la lotta a corruzione e autoritarismo, e per la difesa dei diritti umani. Si tratta di un progetto simile a quello (franco-tedesco) di “alleanza del multilateralismo”? Oppure si tratta di un’alleanza anti-cinese guidata da Washington? Se è vero che l’Amministrazione Biden coordinerà la sua politica verso la Cina con quella europea, l’obiettivo di tale coordinamento sarà quello di spingere l’Europa sulle posizioni statunitensi in merito al decoupling (“disaccoppiamento”) tra USA e Cina?
Mantenere una convergenza transatlantica nei rapporti con Mosca e Beijing non è cosa scontata. In merito sono oramai emerse più Ipotesi. C’è chi ipotizza – in assenza di un nuovo impegno americano su ciò che strategicamente preoccupa gli europei (dal Mediterraneo al Medio Oriente, alla sovranità europea) – una richiesta americana (agli europei) di un allineamento completo sulla politica USA nei confronti della Cina. E – prevedendo una mera “restaurazione” del passato – pensa che gli Europei ricadranno in uno stato di passività, cullandosi nell’idea di un “ritorno allo status quo ante Altri pensano che – se le tensioni tra USA e Cina continueranno ad aumentare – l’Europa potrebbe anche essere tentata di andare per la sua strada, se non altro per mantenere forti legami economici con la Cina. Ma c’è anche chi, come per esempio l’ambasciatore francese Michel Duclos – rilevando che siano già agli inizi di una relazione triangolare Cina-Europa-USA (che, per l’interconnessione delle economie non è simile al triangolo URSS-Europa-USA) e che la congiuntura è favorevole a un dialogo utile tra Europa e USA – pensa che “da parte europea, sarebbe saggio evitare la ricerca di una terza via e, dal lato americano, una volontà d’irreggimentazione sistematica dell’Europa. Non è per cedere a pressioni americane che gli europei hanno indurito il loro approccio ma in conseguenza della rigidità mostrata dalla Cina o in considerazione dei loro interessi di sicurezza (Huawei e 5G)”.
L’impegno degli USA di Biden nel Mediterraneo sarà più chiaro solo nel corso dei prossimi mesi.
[i] I 30 paesi membri della NATO sono questi: Albania, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Islanda,
Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica
ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Ungheria.
[ii] Le Monde 5 dicembre 2019
[iii] Idem
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